bandiera confezionata da Maria Teresa Gallo nel 2011 |
Chiariamo subito che il Circolo
Mazzini (amorevolmente chiamato “u fossu”, il fosso, nel senso che se ci
capitavi dentro non ne uscivi più!) nei
difficili e pur esaltanti anni dell’immediato dopoguerra era il covo
repubblicano di un folto gruppo di teenagers, (“quattru
picciotti”) di una borgata di periferia di una periferica città
siciliana: Trapani.
Ma torniamo a Nat.
Nipote di emigrati siciliani,
nato a Brooklyn nel 1924, valoroso ufficiale pilota in Cina, India e Birmania
durante la seconda guerra mondiale, spinto -quando si dice il destino!- dal
desiderio di conoscere i parenti siciliani del nonno, Nat (doverosamente messo
in guardia da parenti ed amici sulle
insidie e i pericoli che si potevano correre in quella terra di banditi -Giuliano-
e di mafia) alla fine del 1948 s’imbarca alla volta della lontana chimerica
Sicilia (col bagaglio di una conoscenza dell’italiano o del siciliano che spaziava
fra buccetta, vale a dire forchetta, e lona alias luna). Al porto
di Palermo ad attenderlo c’erano i
genitori di Nina (Peppino Di Giorgio con la moglie, Maria Catalano, nipote del
nonno di Nat); dopo i convenevoli necessariamente scambiati a gesti, una veloce
(!) littorina li porta a Trapani, dove (in un alloggio del Museo Pepoli)
abitavano i Di Giorgio, padre madre e...figlia.
Da cosa nasce cosa, come fu come
non fu, lingua o non lingua,
l’affascinante americano e Nina, l’anno dopo, convolano a giuste
nozze.
Fu così che, introdotto dal
suocero, Peppino Di Giorgio, figura “risorgimentale” di mazziniano-anarchico, nostro indimenticato
maestro di vita, una sera al covo ci vedemmo comparire questo Nat, un “pezzo di giovane”, un bel ragazzo
innegabilmente, alto, tipicamente
dinoccolato, comprensibilmente a disagio per essere stato catapultato fra tanti
sconosciuti (“l’uomo venuto d’oltre oceano, piovuto per caso sulla loro
spiaggia, ero stato catturato e stretto con corde legali e invisibili che stavano
facendomi impazzire nella sicilitudine di un paese chiamato Trapani”,
confesserà vent’anni dopo in “Due Mondi”, dedicato a Nina).
Era stata Nina a catturarlo con
corde legali, ma era stato lui a sottrarci, al mercato delle occhiate
(le sole “contrattazioni” allora concesse a giovanotti e ragazze, cose oggi da
non crederci, a chi le racconti?!), un soggetto... così ben quotato: quindi
curiosità e formale cortesia nei confronti
dell’ospite, ma sotto sotto un iniziale pizzico di sottile risentimento
verso l’intruso d’oltre oceano (che però mano a mano doveva poi diventare “uno
di noi” al punto di assumere il ruolo di guida nella fase di risveglio del
dibattito culturale sociale e politico dell’Isola).
Succedono anni di profondo
lacerante ribollente travaglio nella vita di Nat, (...quando distorcendomi e
voltandomi mi ero perduto in quei binari...), quelli che rischiarono di
farlo impazzire nella tormentata ricerca della saldatura dei suoi “due mondi”
(Seattle o T(h)rinacria?), e dei quali egli chiama tutti a testimoni,
una sorta di pubblica autoflagellazione, mettendo crudamente a nudo gli accadimenti ed i sentimenti più
intimi (il “pazzo” della montagna che dice la verità anche quando fa male a
me stesso, ai miei, agli altri).
Mano a mano, il “nuovo” mondo gli
disvela altri aspetti della vita, gli avvicina nuovi amici primi fra tutti
quelli del Circolo Mazzini, lo coinvolge, assegna alla sua generosità, al suo
carisma ed al suo essere e vivere da
“poeta” nuovi obiettivi e nuovi impegni
nella ricerca –salutare e gratificante- delle sue radici più profonde, nella
Sikania degli avi (...ho ramingato e lo faccio ancora cercando la mia isola.
Voglio tornare a casa...)
Senza rinnegare la verde America
dell’infanzia e della giovinezza, quella a cui è legata la sua formazione
culturale, Odisseo dopo lungo e tormentoso peregrinare approda alfine
alla sua Itaca, è infine in pace con se stesso, ha (ri)trovato qui in
Sicilia (la terra passionale e feroce che ha visto ogni cosa e ancora
sopravvive) la sua casa: “Here is my kingdom, here I am King”
(Schammanat = e qui mi sia consentito di citare la dedica: “July 26, 1988 – For
the Gallo s these poems are dedicated to the ‘Home’. Sincerely yours Nat
Scammacca”, enfatizzando l’Home, le radici, al cui significato mi sapeva
sensibile per la mia condizione di “emigrato” sia pure indigeno).
E con la casa ha ritrovato se
stesso:“Sono libero, dico ciò che voglio, libero proprio qui in Sicilia.
Qualcuno ha affettuosamente annotato che “il suo italiano resta sempre pittoresco
e genuinamente ...pensato e parlato in americano! Mi sento anch’io un
elimo, un Ulisse a difendere la lingua siciliana, anche se sono costretto ad
esprimermi in italiano (i miei avi non mi hanno insegnato il siciliano)” .
La sua casa, circondata dalle
rose alle quali dedica alcuni dei suoi versi più belli (Mi chino su di esse
a guardarle per ore chiedendomi come crescono), è alle falde della mitica vetta ericina (a
cui si attacca come un lattante al seno della madre), sulla quale
a sera la lona, languida, si lascia andare come su un sofà.
La dimora di Nat (“Qui
dove fermi viaggiamo”) diventa polo di attrazione per poeti e letterati da
tutto il mondo
(mi sia consentita una scherzosa autocitazione: : ...nella sua reggia,
ogni cani crisciutu o ‘ncriscenzia, trova un lettu, un piattu e ‘na seggia...
).
Nat (e Nina...lavora!) riceve gente, urla i suoi versi
(quel suo modo di declamare che inizialmente ci lasciava sconcertati, almeno
noi profani!), discute, s’infiamma, litiga, si esalta:vive!
Qui, e in tante piazze di Sicilia
dove col fervore del missionario laico porta una voce ed uno stile nuovi,
esplode e si manifesta per intero la sua natura di uomo e di poeta per il
quale Ignazio Apolloni ci ha invitato a
tributare, ognuno come sente e come può, l’omaggio “all'uomo, al poeta, all'idealista, al
trouble-maker, a colui che contribuì a creare l'Antigruppo credendoci fino allo
spasimo, al sistematico agitatore intellettuale incarnato da quel gigante
capace di smuovere dall'apatia altri poeti, artisti, storici, uomini di cultura
e gente comune”.
A proposito di Antigruppo, questo
movimento di rivolta di tanti spiriti liberi della cultura siciliana nei
confronti dell’establishment, non possiamo trascurare di ricordare la
terza pagina del “Trapani Nuova”, un foglio di
provincia (a lui data in concessione
esclusiva ed incondizionata proprio da uno dei “quattru picciotti”,
Nino Montanti, che molti anni prima avevano accolto l’americano
al Circolo Mazzini), che diventa portavoce del movimento e prestigiosa tribuna
aperta al libero dibattito culturale.
Dalla terrazza della sua reggia
lo sguardo spazia sul mare: all’orizzonte le isole Egadi si avvicinano e si ergono nel nostro
soggiorno. E quale migliore osservatorio per chi come lui (fermo ma in
viaggio: ossimoro affascinante e rivelatore), scavando e scavando per riportare
al sole le radici più profonde della sua esistenza, ad un certo punto s’imbatte
in “The sicilian origin of the Odyssey” di un certo L. Greville Pocock, professore neozelandese
interessato alle cose mediterranee!? il quale, sic et simpliciter, riprende, sostiene e dimostra la tesi che
quelle isole che si ergono nel soggiorno di casa Scammacca, quando si
dice il caso, sono nientemeno la scena su cui si è svolta la vicenda di
Odisseo, il suo alter ego!.
Nat non vive più se non per
diffondere al mondo la lieta novella. Sono fecondi anni di passione, di
fervore, di entusiasmo infantile, coinvolgente (due convegni
internazionali all’Hotel Tirreno, giornali, televisione, dibattiti): qui è
Itaca-Scheria, qui è la dimora di Odisseo, la sua dimora, perchè Odisseo
si è reincarnato in lui.
Una teoria che, prescindendo dal suo valore storico o
fantasioso, induce molti di noi “non addetti ai lavori” (turbati ed affascinati
da una così ardita costruzione collocata in quegli stessi siti in cui restano
piantate e coltivate le nostre radici) ad affermare, paradossalmente, che non è
tanto o soltanto la validità scientifica dell’origine siciliana e trapanese
dell’Odissea che più interessa, quanto l’indicazione che se ne riceve: questo
mettere a nudo radici e localizzazioni sepolte nelle stratificazioni dei
secoli, può essere persino un bluff, ma offre un’occasione comunque da non
perdere, una leva, un appiglio, uno scoglio cui aggrapparci per non farci
risucchiare nei turbinosi gorghi dell’abulia, della cecità e della
rassegnazione di oggi.
Gli anni scorrono inesorabili e
arriviamo all’epilogo.
Nei fugaci ma intensi incontri
estivi, ospite il più delle volte nella sua terrazza dove amoreggiava con le
rose, ho potuto conoscerlo più da vicino consolidando vieppiù sentimenti di
considerazione, amicizia ed affetto. All’ultimo nostro incontro, alla
premiazione di Erice Anteka all’Hotel Tirreno, seduto silenzioso ma attento, il
gigante ai miei occhi presentava ora un aspetto di incorporea diafanità: era il riposo del guerriero. Il
mio bacio di commiato incontrò casualmente la sua fronte: mi piace ora pensare
a quel segno d’affetto come ad una sorta
di lode accademica tributata alla tesi di laurea sulla vita dell’uomo e del
poeta, vigorosamente e brillantemente sostenuta dall’americano
conosciuto tanti e tanti anni fa al Circolo Mazzini.
Per concludere, vorrei qui
riportare il mio ricordo espresso in una pagina a lui dedicata sul
siculo-fiorentino Lumie di Sicilia:
“Sono grato alla sorte per avermi fatto incontrare Nat Scammacca, poeta
in ogni fibra del suo essere. Gli sono stato amico: alla sua morte ho pianto.”
Firenze, maggio 2006
su questo stesso blog:
- l'Odissea siciliana
- l'Odissea riminata
- Scammaccando Odisseo
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